La leggenda degli incanti

LA COCCOVAJA

Racconto tra reperti, memoria e leggenda napoletana

La Coccovaja - Disegno di Antonio Nacarlo
Disegno di Antonio Nacarlo ©

Fontana degli Incanti e leggenda della Coccovaja

Risanamento di Napoli e reperti del Museo di San Martino

Napoli e la sua memoria tra Porto e Posillipo

La sala sotterranea del Museo di San Martino odorava di freddo e di carta umida. Luce gialla, silenzio, file di frammenti sopravvissuti alla furia del Risanamento: stemmi, targhe, teste di pietra, pezzi di balconi. Napoli smembrata e archiviata in nome del progresso.

Una turista belga — taccuino, macchina fotografica, una sciarpa rossa troppo leggera per novembre — ci era capitata per caso cercando i bagni. Ne era stata subito attratta. Le luci studiate ad illuminare frammenti di una città che non esisteva più.

Una lastra araldica consunta attirò la sua attenzione. La forma irregolare — quasi ovale, con due sporgenze laterali — sembrava una civetta. Un volto stilizzato, con due occhi grandi e un ciuffo centrale.

“Stemma araldico, in origine sovrastante la fontana detta degli incanti. Interpretato erroneamente dal popolino come una civetta e detta della ‘Coccovaja’. Quartiere Porto. Fine XVII secolo.”

La turista sorrise. Pareidolia pura.

Subito dopo notò una fotografia in seppia: la Fontana degli Incanti nel suo antico posto, tra Rua Catalana e Piazza Francese. La grande vasca, i leoni, la civetta araldica, i mercati attorno, il caos del porto.

Poco più avanti, un altro reperto attirò il suo sguardo: una piccola lapide. Un uomo scolpito, la testa tra le mani, come affranto. La posa ricordava Le Penseur di Rodin, ma più disperata, più febbrile.

«Povero pensiero mio,
se lo so’ arrubbato,
pe’ nun le fare spese,
me l’hanno turnato.»

La donna cercò di tradurle mentalmente, arricciando il naso. «Stolen… thought?»

Una voce maschile rispose alle sue spalle: «Quando un pensiero viene rubato, non è più lo stesso quando ritorna.»

Lei si voltò. Un giovane — elegante e raffinato — le stava accanto. Giacca scura, mani impeccabili, un pallore raffinato. Nessun elemento inquietante: sembrava semplicemente un uomo colto.

«Lei è una guida?» chiese lei.

«No,» rispose lui con un lieve sorriso. «Solo un amante della memoria. Le pietre parlano, se le sai ascoltare.»

Indicò lo stemma. «Quella figura fu scambiata per una civetta. Ma non era che un semplice stemma nobiliare rovinato. Il popolino, però, aveva bisogno di storie… e così nacque una leggenda.»

La turista si avvicinò. «Una leggenda? Su una fontana?»

«Oh sì,» disse lui, con tono garbato. «La Fontana degli Incanti portava il nome per una ragione. Era il luogo dove, si diceva, le streghe preparassero pozioni notturne usando quell’acqua pura che da lì scaturiva.»

«Un tempo,» proseguì il giovane, «la fontana non era su quella collina elegante dove l’hanno messa oggi. Stava al Porto, tra Rua Catalana e Piazza Francese. Vicoli stretti, odore di mare e cordami bagnati. Ogni notte, tra le grida dei marinai e dei venditori, si accendeva una voce diversa.»

L’uomo si fermò un attimo, inseguendo un pensiero oltre la testa della ragazza. «Il quartiere del Porto era malfamato, anzi dirò di più, maledetto… zona di scomparse, superstizioni, paure. Marinai e viandanti svanivano come acqua nella sabbia.»

La turista annuì. Era affascinata.

«E la lapide?» chiese.

Il giovane osservò la scultura dell’uomo disperato. «Quella,» disse lentamente, «la fece scolpire un poeta. Un giovane ribelle. Uno che chiamavano il Milordino. Per il suo modo elegante di vestire, per la sua ambizione smisurata… e per la sua ingenuità tragica.»

«Una notte,» continuò, «il Milordino discese al Porto. Era ubriaco, deluso dalla vita, stanco di cercare la gloria dove nessuno la riconosce. Cercava un tagliagola… o un prodigio. Qualcosa che interrompesse la sua disperazione.»

La turista trattenne il fiato. Tutto era raccontato con una dolcezza malinconica, senza alcuna teatralità.

«E trovò?» sussurrò.

«Una donna,» rispose il giovane. «Una donna di una bellezza feroce…»

L’uomo abbassò lo sguardo, esausto mentre si aggiustava i capelli ribelli.

«Continui, la prego.» disse la turista rapita.

L’uomo fece cenno di accomodarsi mentre continuava il racconto.

«Le strade odoravano di pesce vecchio, alghe e vino versato. La Fontana degli Incanti era lì, come nella tua foto: enorme, fuori posto, circondata da tende, baracche, tavole di legno. I leoni consumati fissavano il vuoto, come animali stanchi.

Il poeta barcollava vistosamente. Aveva i ricci sudati, la giacca aperta, una bottiglia mezzo vuota nella mano e da sotto il panciotto brillava la lama di un pugnale.»

«O la mia opera diverrà immortale…» mormorava, «o morirò stanotte.»

Poi la sentì. Una voce. Una voce che non si limitava a cantare: scivolava nell’aria, morbida come acqua e tagliente come un coltello unto.

«Era de maggio e te cadéano ‘nzino, a schiocche a schiocche, li ccerase rosse…
Fresca era ll’aria… e tutto lu ciardino addurava de rose a ciento passe…
Era de maggio, io no, nun mme ne scordo, na canzone cantávamo a doje voce…
Cchiù tiempo passa e cchiù mme n’allicordo, fresca era ll’aria e la canzona doce…»

Lei era chinata sulla fontana, riempiendo lentamente una brocca di rame. Aveva i capelli biondi e ricci, come spighe di grano intrecciate alla luna. La luce delle torce le accendeva il volto, rendendo la pelle quasi trasparente.

Il suo corpo era lungo, morbido, con movimenti lentissimi, da predatrice che non vuole spaventare la preda. Ogni gesto sembrava una danza.

Il poeta inspirò piano, quasi sobrio per la prima volta.

«Posso… restare ad ascoltarla?» chiese.

Lei non si voltò subito. Sorrise prima. Poi disse in napoletano perfetto:

«‘E vvoce nun se senteno… se ‘mpàrano.»

«I think I missed something… could you repeat it in Italian? Or English?»

L’uomo spiegò: «È un modo di dire napoletano. Significa che le parole non si ascoltano soltanto: si imparano. Così parlava la gente del Porto. E così parlava anche lei, la donna della fontana.»

La turista annuì, invitandolo con le mani a proseguire.

Il poeta rise, incerto. «Allora voglio imparare.»

Lei sollevò appena il capo. I ricci biondi scesero sulla spalla come un velo di luce.

«E tu che ve vulite mparà, mio signore?»

«A diventare famoso,» disse lui con una risata stanca. «O a morire. Che è lo stesso, per uno come me.»

Lei si avvicinò. Non camminava: scivolava sulla pietra umida.

«E pecché si’ accussì triste, cu ‘e parole ‘e nu poeta e ‘o core ‘e nu disgraziato?»

«Perché scrivo per una città che non legge. E amo donne che non esistono.»

Lei rise piano, un riso caldo, carnale.

«E allora guardame…»

Gli prese il mento con due dita fredde. «Esisto, o no?»

Lui sospirò. «Sei la cosa più bella che io abbia mai visto. Chi sei?»

Lei avvicinò le labbra all’orecchio. «So’… la creatura…»

«Non so’ brava né cattiva… so’ comm‘o mare: te voglio pecché sì bello, e te perdo pecché è destino.»

«Posso… recitarti qualcosa?»

Lei lo fissò. «Recita. Voglio sentì che dice ll’anema toja.»

Il poeta declamò. Tremante. Ubriaco. Lei lo ascoltò come si ascolta un incanto.

Quando tacque, la donna gli prese la mano e la guidò fino al bordo della fontana. L’acqua tremò.

«Tu non credi a niente,» disse. «Ma stasera crirarraje…»

«Alla magia?»

Lei sorrise. «A me.»

Lui la baciò. Un bacio lungo, pieno del sapore di mare e di vino.

Poi avvertì il morso. Lento. Profondo. Un bacio che diventava abisso.

Cadde in ginocchio. Sanguinava dalle arterie recise. Non capiva più dove fosse.

La donna lo guardò mentre il sangue colava rosso sul selciato di pietra nera. Sorrise. I suoi occhi si trasformarono. Il colore cambiò. La pupilla si dilatò.

Il corpo sinuoso si contrasse. Le spalle si piegarono. Le braccia divennero ali. I capelli si fecero piume chiare.

Davanti alla fontana degli incanti, una civetta enorme oscillò su una zampa, fissandolo.

«Nun è colpa mia… è la natura mia.»

Si alzò in volo e scomparve nello stemma in cima alla fontana.

La turista era rapita. Il giovane continuò:

«I popolani trovarono il giovane delirante, al mattino. Videro il sangue. Videro i segni dei morsi sul collo. E, terrorizzati, demolirono la fontana. La spezzarono come si spezza un incubo.»

«Da allora, il Milordino vagò senza senno. E in un ultimo lampo di lucidità… dettò quella frase.»

Indicò la lapide. «Il povero pensiero… rubato. L’ingegno perduto. La mente che non torna più com’era.»

La turista guardò la pietra con nuova angoscia.

«E la strega… the witch of the fountain?»

Il giovane sorrise. «Le leggende dicono che scomparve nella pietra. Come un’ombra. O come una civetta. Ma certe storie vivono solo finché qualcuno le ascolta.»

Lei si voltò un attimo. Quando tornò a guardare… l’uomo non c’era più.

Sul piedistallo della civetta consunta c’era un foglio piegato. Calligrafia ottocentesca. Sottile. Inclinata.

«Dove un uomo o un popolo dimentica ciò che è stato,
nessuna fantasia potrà ridargli vita.»

La turista trattenne il respiro. Si voltò verso la sala. Vuota. E allora — solo allora — comprese.

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Un commento

  1. […] Nella suggestiva location, tra volte ogivate e giochi di luce, i lunghi corridoi ospitano moltissimi elementi marmorei della sezione epigrafica del Museo, insieme a statue e frammenti provenienti da lasciti, acquisizioni o depositi effettuati dalla fine dell’Ottocento agli inizi del Novecento. Un vasto percorso iconografico attraversa i secoli con interessanti opere di scultura, che dialogano tra loro proprio come accade per altri reperti cittadini raccontati in questo articolo sulla Fontana degli Incanti . […]

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