Una giornata amara al San Paolo
Era la stagione calcistica 1997/98, e il Napoli stava vivendo una delle sue annate più cupe. Ben quattro allenatori si erano alternati alla guida della compagine azzurra: Mutti, Galeone, Mazzone e Montefusco avevano racimolato, in 33 partite, la miseria di 13 punti. Sotto un sole impietoso di maggio, la squadra, ormai condannata alla retrocessione, stava perdendo anche l’ultima gara del torneo.
Gli spalti, un tempo traboccanti di passione, erano semivuoti e stranamente muti. Su una panca, un ragazzo dai capelli scuri, gli occhi velati di lacrime sotto gli occhiali da sole, fingeva di fissare il rettangolo di gioco. Indossava una maglia azzurra sbiadita, i capelli lunghi gli cadevano sulla guancia barbuta, ma non faceva nulla per scostarli dal viso sudato e chino, quasi a voler nascondere le lacrime che scivolavano silenziose.Le spalle curve e i pugni chiusi a stringere una sciarpetta con il volto sorridente di Diego. Sentiva il peso di quella retrocessione imminente, presagiva che quel Napoli che aveva dominato in Italia ed Europa non sarebbe più tornato. Intorno a lui, lo stadio si svuotava. Era appena il 41° del primo tempo. Mai aveva visto tanta rassegnazione nella curva.Restava lì, immobile, come se andarsene significasse abbandonare una parte di sé.
L’incontro col vecchio tifoso
Poco distante, un arzillo vecchietto bardato da capo a piedi d’azzurro continuava a incitare la squadra con un fischietto e una bandiera, senza mai fermarsi a prendere fiato
.— ’O zì, scusate, ma che tenite d’alluccà cchiù? Sparagnateve ‘a salute… Questi giocatori so’ mezze cazette! —
Sbottò il ragazzo, asciugandosi in fretta le lacrime.L’anziano tifoso ripose il fischietto ma non la bandiera.
— Invece tu che te chiagne, guagliò? — Non attese risposta. — Io non esalto chi indossa la maglia. Io tifo per la maglia stessa. La maglia è Napoli, e nessuno me la deve toccare.
Il giovane lo fissò, pensando che quell’uomo fosse fuori dalla realtà. Fece per andarsene, ma la voce del vecchio lo fermò.
— Aspetta, guagliò… Io, in tanti anni, ho tifato davvero per due giocatori del Napoli. Non solo perché campioni, ma perché veri uomini. Uno era Maradona. L’altro forse nemmeno lo conosci.
L’eco di un nome dimenticato: Antonio Bacchetti
All’improvviso, frastuono dallo stadio: “GOL! GOL! GOL!”Il numero 18 del Napoli, Damir Stojak, aveva pareggiato allo scadere del primo tempo.Il ragazzo e il vecchio si ritrovarono abbracciati a esultare. Poi si sedettero di nuovo, curiosi, sospesi tra tristezza e stupore.
— Era la stagione 1950/51. Il Napoli tornava in Serie A. Il presidente Egidio Musollino, vero competente di pallone, costruì una squadra con pochi soldi ma grande cuore. L’allenatore era Eraldo Monzeglio, già due volte campione del mondo.— Arrivarono grandi nomi: Amadei “il fornaretto”, Remondini dalla Lazio, Corsari in porta. Ma il mio preferito veniva dal Brescia. Era friulano, mezz’ala tecnica, numero 7. Si chiamava Antonio Bacchetti.
Antonio Bacchetti: il “cammello partigiano”
— Lo chiamavano ‘o cammello, per quella corsa sbilenca che spaccava le difese. Ma io lo ammiravo per un altro motivo — continuò il vecchio. — Prima di calcare il prato dello stadio Collana, aveva corso tra i boschi con la Brigata Garibaldi. Era un partigiano. Combatteva per la libertà, con le pallottole che gli fischiavano vicino e i fascisti alle calcagna.
— Non lo conoscevo, era davvero famoso? — chiese il ragazzo, incuriosito. Il vecchio sorrise.—
Eduardo De Filippo. Napoli Milionaria. 1951.
Gennaro e Pasqualino compilano la schedina: “Napoli-Inter. Che mettiamo?”. “Bacchetti gioca?”. “Sì”. “Allora metti uno fisso.”
— Capito? Bacchetti era una certezza. Un simbolo.—
Quando il calcio cede alla politica
— Eppure — disse il ragazzo — se era così forte, perché non vinse lo scudetto? Perché non andò in nazionale?
Il vecchio abbassò lo sguardo.— Perché il mondo è sporco. Bacchetti era comunista. Monzeglio, l’allenatore, era fascista, amico del Duce. E quando morì Musollino, arrivò Achille Lauro, monarchico e anticomunista.Non volevano uno come lui. Trovarono il modo di farlo fuori: un processo per un omicidio commesso durante la Resistenza. Fu assolto, ma il calcio gli chiuse le porte. Nonostante l’amore della gente.
Il Napoli è memoria, è identità
Il vecchio si fermò, gli occhi lucidi. Il ragazzo restò in silenzio. Aveva capito.Il Napoli non era solo una squadra. Era resistenza, memoria, identità. E in quel giorno di retrocessione, nella tristezza dello stadio, aveva imparato che non si tifa per chi indossa la maglia.Si tifa per la maglia stessa. Per ciò che rappresenta.
In memoria di mio padre
Antonio Nacarlo
