
Un dramma simbolico tra storia e desiderio
Ci sono testi teatrali che non restano confinati al repertorio, ma diventano specchi nei quali una comunità intera impara a leggersi. Ferdinando di Annibale Ruccello è uno di questi: nato in appena venti giorni di scrittura febbrile, ha segnato con forza il teatro napoletano e italiano degli anni Ottanta. È un’opera che si regge sul filo doppio della storia e della metafora, capace di raccontare l’Ottocento e, nello stesso tempo, di parlare a ogni epoca, compresa la nostra.
Lo stile teatrale: tra giallo e tragedia borghese
Il tempo scelto da Ruccello è il 1870, dieci anni dopo l’Unità d’Italia. I proclami risorgimentali hanno già lasciato il posto a un Paese ferito, attraversato da rancori e nostalgie, dove il nuovo potere sabaudo si impone con la stessa durezza del vecchio. In una villa di campagna, isolata e sospesa, vive Donna Clotilde, nobildonna filoborbonica che si è ritirata dal mondo. Passa le sue giornate costretta a letto, tra malanni veri o presunti, sorvegliata da Donna Gesualda, cugina povera ridotta al ruolo di serva, e visitata di tanto in tanto da Don Catellino, parroco del paese, uomo che come lei non riesce a staccarsi dal passato e dalle sue ombre.
In questo microcosmo immobile, dove il tempo sembra essersi fermato, arriva una lettera che annuncia l’arrivo di un giovane parente, un lontano nipote che porta un nome pesante: Ferdinando. È lui a rompere la staticità della villa. Bello, ambiguo, seducente, il ragazzo si muove come una fiamma che divora ogni equilibrio. Intorno a lui emergono desideri repressi, ipocrisie secolari, ambizioni mai sopite. Ognuno dei personaggi cade nella sua trappola: la nobildonna cede alla fascinazione del corpo giovane, la cugina umiliata si lascia irretire dalla promessa di un riscatto, il prete si scopre vulnerabile alla tentazione che aveva creduto di dominare.
Il cuore dell’opera non è soltanto il gioco psicologico, ma la sostanza metaforica che trasforma il corpo in campo di battaglia della storia. Il letto di Clotilde non è solo un giaciglio di malata immaginaria: è un trono ridotto a prigione, ma anche un altare sacrificale sul quale la nobiltà decadente si lascia penetrare dal nuovo potere, barattando piacere con sopravvivenza. Gesualda, nel tentativo disperato di conservare una verginità che per lei coincide con l’onore, si piega a rapporti contro natura: allegoria aspra di un popolo che accetta umiliazioni pur di non tradire la propria illusione di purezza. Don Catellino, convinto di essere ancora guida morale, finisce lui stesso sedotto, rivelando così la fragilità di una Chiesa che dietro il velo spirituale cela vizi carnali e impotenza politica.
E poi c’è Ferdinando, corpo giovane che è insieme promessa e minaccia. Il suo erotismo ambiguo non è mai neutro: seduce, corrompe, disarma. Alla fine si rivela per ciò che è davvero, un impostore, una spia inviata dal potere sabaudo per scoprire e confiscare i beni della nobildonna. La sua bellezza era soltanto lo strumento di un esproprio. È in lui che la metafora si compie. Il nuovo Stato non conquista con la retorica dei proclami, ma con il fascino della menzogna, con la capacità di insinuarsi nei corpi e nei desideri di chi non ha più la forza di resistere.
La lingua come campo di battaglia
La lingua di Ferdinando è essa stessa un personaggio. Ruccello sceglie un napoletano denso, arcaico, venato di inflessioni borboniche, che non ha nulla di folcloristico. È un gesto politico: dare voce a chi, con l’Unità, l’ha persa. Il dialetto diventa resistenza, ultimo baluardo contro l’omologazione di un “italiano nazionale” calato dall’alto. Ogni battuta, ogni inflessione porta con sé il peso di un’identità in bilico. Suono e senso coincidono, ma sono anche rivendicazione e perdita, radice e ferita. Non è un caso che proprio in questo contrasto linguistico si avverta la forza dello scontro tra mondi, tra una comunità che fatica a riconoscersi nel nuovo ordine e un potere che pretende di cancellarne la memoria.
La villa dove tutto si svolge è una scena chiusa, quasi un carcere. Le pareti, i mobili, il letto monumentale di Donna Clotilde non sono semplici elementi scenici, ma simboli. Lo spazio claustrofobico diventa specchio di un Sud rinchiuso nelle sue ossessioni, incapace di respirare fuori da quelle mura. Ruccello costruisce il testo come un meccanismo perfetto, a metà tra giallo e tragedia borghese. La suspense nasce dall’attesa e dalle continue manipolazioni reciproche, in un crescendo che si scioglie solo nel colpo di scena finale, quando Ferdinando si toglie la maschera e rivela il proprio vero volto.
C’è sempre ironia, persino comicità, nelle paturnie di Clotilde, nelle fissazioni di Don Catellino, nelle goffaggini di Gesualda. Ma questa leggerezza non alleggerisce, anzi. Sotto il riso scorre la consapevolezza amara di un destino già segnato: i corpi usati, le anime gabbate, i ceti sociali smascherati nella loro impotenza. Ogni risata prepara la caduta, e l’ultima parola spetta sempre al tradimento.
Attualità di un dramma “storico”
È qui che Ruccello diventa universale. Ferdinando è ambientato nel passato ma parla a ogni epoca. Racconta il momento in cui una classe dirigente muore e un’altra prende il suo posto. Non per merito o giustizia, ma attraverso la corruzione, la seduzione, l’inganno. Il popolo resta illuso e violato. La nobiltà cede in nome del piacere. La Chiesa si rivela impotente, e il nuovo potere avanza vestito di giovinezza e di promessa. È una parabola che si ripete, sempre uguale, in ogni passaggio epocale.
Isa Danieli, prima interprete di Donna Clotilde, colse questa ricchezza e la rese indimenticabile. Il suo corpo a letto, a metà tra regina e larva, custodiva tutta l’ambiguità del personaggio e del tempo storico. Attraverso la sua voce e i suoi gesti, il dramma di Ruccello usciva dal palcoscenico e diventava specchio di un’intera collettività.
Oggi, a distanza di quarant’anni dalla sua scrittura e di più di un secolo e mezzo dall’ambientazione, Ferdinando conserva intatta la sua potenza. Non solo un capolavoro del teatro italiano contemporaneo. Un affresco crudele e lucidissimo del rapporto tra desiderio e potere, tra corpi e storia, tra seduzione e tradimento. Nella villa di Donna Clotilde non muore soltanto un Regno, ma si consuma il dramma eterno di una comunità che, di fronte al nuovo, non trova mai la forza di resistere.



