C’era una volta — ma c’è ancora — una lingua che non si dimentica, che canta e taglia, che consola e incanta. È il napoletano delle favole di Giambattista Basile, quello de Lo cunto de li cunti, dove i re e le serve parlano la stessa lingua e dove il grottesco non è mai ridicolo, ma necessario. In quella terra incerta fra l’incubo e la grazia, oggi, vive e crea Dadà, artista nata a Napoli nel 1995, all’anagrafe Gaia Eleonora Cipollaro.
Il suo lavoro è un corpo musicale e narrativo che respira di segni antichi e mutazioni contemporanee. Dadà racconta, sì — come le vegliatrici di un tempo, come le nonne che trasformavano le attese in racconto — ma lo fa con voce nuova, attraversata da elettronica, costumi, teatro. Una cantastorie transmediale, che si muove tra tradizione orale e arti visive, tra suono e corpo, tra femminile e creatura.
In questo senso, Achille Bonito Oliva sarebbe forse il critico ideale per leggere Dadà: perché il suo approccio è da transavanguardista del racconto, capace di citare e mischiare, di rendere la memoria una forma d’azione, non di nostalgia. Non canta Napoli: la fa parlare, attraverso una lente obliqua, viscerale e perturbante.
La voce e le radici: esordi e primi esperimenti
Dopo un percorso di formazione in teatro e arti performative, Dadà esordisce nel 2021 con una trilogia in napoletano: “Jesche”, “Siènte ’e rrise” e “Avena”, piccoli rituali sonori che si muovono tra spoken word, bassi ipnotici e versi che sembrano usciti da una veglia collettiva.
Sin da subito, il suo stile si impone come riconoscibile: radicato ma non folkloristico, sperimentale ma non ermetico. I suoi testi non sono mai “scritti”: sono cantati, mossi, vissuti. E sempre attraversati da una corporeità antica, che rimanda alla maschera e al rito.
“Mammarella” e la consacrazione iconica
Nel 2023 arriva l’EP “Mammarella”, una suite di sei brani in forma di fiaba urbana. È un’opera che segna la maturità artistica di Dadà: ogni traccia è accompagnata da videoclip, elementi scenici, costumi che sembrano usciti da un presepe distopico.
Il lavoro conquista pubblico e critica, e Dadà viene invitata a festival multidisciplinari e rassegne dedicate alla nuova scena musicale femminile del Sud. Le sue performance non sono concerti, ma esperienze immersive, in cui la parola si fa gesto e il suono si fa spazio.
“Doce Doce” e “Smorfiosa”: Napoli come corpo simbolico
Nel 2024, due nuovi progetti ne rafforzano la poetica. Il primo, “Doce Doce”, è una performance-installazione presentata al Museo Madre di Napoli: una suite visiva e sonora in cui la lingua napoletana si fa materia plastica, avvolta da elettronica minimale e immagini ipnotiche.
Il secondo, “Smorfiosa”, è un viaggio nei numeri della smorfia napoletana, intesi come archivio emotivo e magico: una serie di brani e reading visivi in cui Dadà trasforma i simboli in drammaturgia leggera e visionaria, fondendo teatro, moda e mitologia popolare.
“Core in Fabula” (2025): il teatro sonoro dell’anima
Il 15 maggio 2025 esce “Core in Fabula”, un album in tre capitoli che unisce infanzia, memoria e metamorfosi. Sedici tracce, ciascuna un piccolo affresco sonoro, accompagnate da video-performance e costumi artigianali realizzati in collaborazione con giovani designer partenopei.
Il debutto live avviene il 22 maggio al Teatro Bolivar, in una serata che mescola fiaba, rito e sperimentazione: Dadà è in scena come una regina contadina, una Madonna elettronica, che mescola voce e silenzio, pizzi e delay, in un palcoscenico che diventa altare
Serpa: il videoclip manifesto
Nel videoclip di “Serpa”, pubblicato nell’aprile 2025, Dadà compone un quadro vivente: due donne si abbracciano in uno spazio sacro e inquieto, tra serpenti e sguardi. Diretto da lei stessa il video è una dichiarazione poetica e politica, un inno alla sorellanza, alla potenza muta del corpo.
Una favola che non finisce: Dadà e la città che resiste
Dadà non fa “canzoni napoletane”. Ricrea una Napoli interiore, magica, sgrammaticata e autentica. Le sue fiabe non sono evasive: sono strumenti di lettura del presente, riti di ricostruzione. Come Basile, sa che l’infanzia è una chiave e che l’osceno e il meraviglioso possono convivere.
Per Napoli Up Close, raccontare la sua voce significa testimoniare un atto d’amore e resistenza, in cui la cultura non è vetrina, ma carne. E in un tempo che ci vuole muti e veloci, Dadà ci invita a fermarci, ad ascoltare. E a ricordare.
